TREKKING TOUR in MAROCCO

(IL RACCONTO DI TONIA)

 

Dalle sabbie del deserto del Sahara alle catene montuose dell’Atlante. Dal sotto zero delle cime innevate ai 40 gradi del sole sui cammelli. Dai villaggi berberi alle capanne dei nomadi. Dal sito unesco di Quarzazate alla piazza rossa di Marrakech. Un viaggio che più che dalle mille e una notte ci è sembrato durasse più di mille notti.
Se i vu cumpra non vengono più in Italia, data la crisi, sono gli italiani ora che vanno dai vu cumpra. E gli Outdoorini, a differenza di Maometto e a passo coi tempi, hanno deciso di spostarsi e andare alla montagna: non più quelle nostrane, ma quelle del Marocco.
Marocco, terra del gran Sahara, degli antichi riad e del Souk della Medina. Paese che offre a tutti il suo the alla menta, propone tajine di terracotta e cous cous di carne, datteri succulenti e spezie colorate.
Stato sotto il segno di Allah e del governo dei dirham, é nell’immaginario il luogo dei tappeti fatti a mano e le lampade in metallo, le babbucce con la punta alzata e l’hennè sulla pelle delle donne, la produzione dell’argan e la coltivazione dello zafferano, dei vocianti suq e dei loro domatori di serpenti.
Questo il Marocco, quello che un po' tutti conosciamo.
Poi però ci sono i cammelli sonnolenti del deserto, l’alba improvvisa sulle dune, il cielo stellato del Nord Africa, quello sotto cui abbiamo espresso desideri e confessato lauti segreti. C’é l’aria secca del Sahara e quella terribilmente umida dei villaggi dell’Atlante, che se non la vivi non sai come si fa a prendere subito la febbre. Ci sono le donne schive che non si lasciano fotografare e le moschee silenziose dove non ti lasciano entrare.
Tappeti lavati nell’acqua dei fiumi, storie solitarie all’ombra delle palme, bambini scalzi nelle acque delle latrine, volti invisibili dentro le mura dei villaggi rossi, vite anonime eppure piene di vita che le nostre vite forse non comprenderanno mai.
Questo il nostro Marocco, che un po' per volta abbiamo scoperto.
E abbiamo scoperto le tribù autoctone dei berberi, uomini liberi tra città e deserto, quelli che vivono nei villaggi che abbiamo attraversato, nelle mura delle case fatte di fango e paglia e nelle viuzze silenziose in cui i bambini corrono inseguendo i matti con i bastoncini per avere bonbons e stylos . Quelli che nella propria casa, dove ci hanno ospitato, accolto e offerto dignitosi pranzi, appese ai muri hanno l’immagine delle donne che leggono il corano e la gigantografia della grande moschea della Medina, dove tutti anelano ad andare.
Entrare nelle loro case è stato per noi un colpo d’occhio improvviso su un Marocco arcaico.
E poi i Tuareg, i pastori nomadi del Sahara, che hanno scelto come patria una terra di nessuno, il grande deserto come unico villaggio e le tende sparse sulle dune come case private, dove poter essere “viandanti”  tutta la vita.Sono quelli con il volto coperto dal tagelmust, un turbante e insieme un velo che lascia scoperti solo gli occhi, che ripara la testa dal sole e la bocca dalla sabbia portata dal vento.
L’impatto con queste tribù indigene è stato il più grande esempio di adattamento dell’uomo alla natura ostile del Gran Deserto.
Sono “i velati”, il “popolo blu”, chiamati dagli arabi gli “sperduti”o “figli del vento”, sono i “dominatori della sabbia” che credono in spiriti provenienti da mondi invisibili e che hanno realizzato un concetto di “libertà transumante”  che per noi europei è impossibile. I Tuareg sono i “ribelli del deserto” in via di estinzione, che da millenni fanno valere le loro tradizioni ascetiche contro il totalitarismo islamico e che non si sono mai sottomessi del tutto al colonialismo francese. Sono quelli in cui le donne non portano il velo perché possono mostrare la loro femminilità, le bambine mangiano di gusto al tavolo con gli Outdoorini sotto le tende del deserto e il promesso sposo offre dozzine di dromedari alla famiglia della futura sposa prima di farle sfornare almeno 10 figli.
Ma per arrivare nel regno dei Tuareg abbiamo dovuto attraversare ore e ore di scossoni e sbalzi negli abitacoli dei fuoristrada lungo una pietraia senza orizzonte, che si alternava a onde di sabbia sulle quali lo sguardo non riusciva a trovare punti di riferimento.
Alì il guidatore, dal fascino esotico e dalla pelle ambrata, cambiava traiettoria senza apparente motivo lungo la distesa desertica, seguendo riferimenti a noi invisibili ma a lui familiari.
C’é in questa gente un senso di orientamento e una capacità di trovare la strada nel mare magnum di pietra e sabbia che noi forse, nell’ordine ossessivo delle nostre vite sempre alla ricerca della stella polare, abbiamo perduto.
"Dio creò il deserto affinché gli uomini possano conoscere la loro anima", dice un detto tuareg, forse perché gli spazi senza limiti visibili, i luoghi solitari e il silenzio tutt’intorno costringono a vivere solo quello che abbiamo “qui e adesso”, a vivere questi momenti mentre passano, mentre li attraversiamo, mentre sono ancora vivi, senza connessioni col mondo virtuale, senza connessioni con i nostri pensieri più remoti e non al momento risolvibili.
Si, perché nel deserto non c’è campo e oltre a beneficiarne i sensi che sono più sensibili e attenti a quello che viviamo, ne ha beneficiato l’anima.
La nostra è stata un’esperienza di noi stessi dentro il viaggio.Il tramonto nel deserto è una finestra sull’anima”, recita un altro proverbio tuareg che ci ha confessato un altro degli autisti dal turbante blu, che riesce a farci arrivare in tenda giusto per il calar del sole.
Un Marocco avvincente il nostro, fascinoso, misterioso e a tratti incantatore, fatto di cammellate in compagnia di questi impenetrabili beduini, di falò sotto le stelle tra le tende e del rituale magico del the nel deserto.
I falò noi siamo abituati a farli sulla spiaggia con un coro di voci e una chitarra. Qui l’abbiamo fatto tutti attorno ad un grande fuoco, con un coro di tamburi e la voce cantilenante dei beduini. Accomodati sopra enormi tappeti sulla sabbia del Sahara, la notte nel deserto celebra il “soundtrack del vagabondaggio”: percussioni e flauti folk, richiami alle preghiere e grida dei beduini, l’accampamento è silenzioso solo in tarda notte ma noi siamo ancora su di giri.
È un rito, una festa, in cui si sprigiona tutta l’energia silenziosa del giorno e la sorprendente vitalità del deserto marocchino. È la luce di un fuoco arcaico contro quello artificioso della modernità a cui siamo abituati. La notte, dopo i suoni, nel deserto c’è il silenzio e il buio, e nel buio, se ti scappa la pipì, devi imparare a fare i conti con gli uomini neri, ma quelli nella tua testa, perché i beduini dormono.
E una festa è anche il thè, il cui profumo di menta ha invaso ogni volta il luogo dove eravamo accolti, un’usanza religiosa antica, un rituale che il popolo magrebino condivide con i suoi ospiti come segno di apertura, di stima e di benvenuto.
Acqua, tè verde, zucchero e menta fresca, questi i pochi e semplici ingredienti della bevanda simbolo di questa terra, il cui sapore ci terrà legati per sempre al ricordo di questo viaggio… anche perché rifarlo a casa non è mai la stessa cosa.
Il the viene preparato nei barrad, piccoli bollitori tipici del posto e lo si lascia in infusione per qualche minuto, e quando i baccelli si sono aperti si aggiungono foglioline di menta profumatissime. Quando il tutto è pronto, fumante, come un gesto magico che ricorda la lampada di Aladino, la teiera viene portata in alto e a “scenica distanza” scaraventa la pozione magica in piccoli bicchieri di vetro da cui non fa cadere neanche una goccia, creando una schiuma che ne intensifica i sapori. Il filo di the che scende e va dritto nel bicchiere mentre esala il profumo di menta lungo il nostro naso non ha prezzo. E infatti è sempre gratis.
Una volta tornati a casa sentiremo la mancanza, oltre che di quei sapori, dei momenti che ci siamo regalati per degustarlo e di nuovo avremo la sensazione di non avere tempo.
I nostri the sono infusi che ci servono per bere di più o per digerire, per riscaldarci o per saziare il senso di fame. Per i marocchini il the, come ogni piatto che viene messo a tavola, è una cerimonia la cui preparazione è un modo per elevare lo spirito e meditare. Essi ritengono che il fischio della teiera che ribolle serve a calmare gli animi e rinfrescare la mente, facendo sincronizzare il proprio battito cardiaco a quello della teiera. Per questo il the in Marocco diventa magia.
E magiche sono le spezie: il sapore del ginepro, l’odore pungente del cumino, quello sgranato del coriandolo, il colore giallo oro della curcuma e lo zenzero, il profumo esotico dello zafferano delle sabbie del deserto magrebino, e il Raz el Hanout per il cous cous che racchiude tutte le seducenti note per i nostri palati occidentali.
E gli odori delle spezie s’intrecciano nei souk di Marrakech e nella grande piazza, dove si mischiano all’incenso, alle pelli di cammello delle borse fatte a mano, alla frutta secca e quella fresca che sembra enorme e succulenta, ai nostri odori, quelli che ci portiamo sempre dietro da un mondo troppo profumato.
Si mischiano gli odori e se ne creano di nuovi: proviamo, dopo 7 giorni qui, ad abbandonare quell’eurocentrismo orgoglioso e un po' elitario che ancora ci accompagna e ci dà il permesso di stabilire, anche fuori casa, cosa sia giusto, cosa sia la civiltà e più di tutto cosa la felicità.
Marrakech è un cazzoto nell’occhio per il nostro bon ton europeo: caotica, chiassosa, disordinata, piena di colori eccentrici, dove nella grande piazza i Muezzin richiamano imperiosamente alla preghiera una vociante moltitudine pagana e i flauti degli incantatori stordiscono scimmie e serpenti.
Ma è proprio in questo caos che riusciamo a perderci: i colori che pervadono la notte araba si sostituiscono ai nostri pensieri residui. Abbandoniamo la nostra arte dialettica volontariamente e ci lasciamo imbarbagliare volentieri dai sorrisi magrebini. Non importa quanti dirham avremo perso fuori da questa piazza, ciò che abbiamo acquistato è un pezzo di vita che non dimenticheremo mai.
Ci lasciamo andare all’incantesimo di questa città segreta e all’improvviso la riscopriamo giovane e piena di frenesia, vibrante, seducente, e misteriosamente immersa in un’atmosfera arcaica e anacronistica. 
Marrakech è la città rossa, perchè rossa è la pietra, rossa è la polvere, rossi sono i palazzi e il colore del sole, rosso il cuore del vivace scenario cittadino costituito dalla Medina e dai suoi mercati.
Marrakech ha dato il nome al Marocco e ne preserva il segreto: il segreto di una magia nascosta dietro il volto di apparente desolazione, una magia da cui bisogna farsi rapire per poter vedere.
È come durante l’esplorazione del mercato: non limitiamoci ad osservare i palazzi dall’esterno, se proviamo a varcare la soglia di uno dei numerosi riad scopriremo che i veri tesori sono “nascosti” all’interno dei grandi portoni di legno. Oltre quei portoni, patii dalla vegetazione lussureggiante e lo zampillare delle fontane, che raccontano storie di una terra e della sua bellezza intrinseca. 

E infine ci siamo NOI, oltre e dentro questo Marocco. Noi che abbiamo camminato tutto il giorno, che ci siamo spesi come matti, resistito all’assenza del wi-fi e superato l’abitudine serale della doccia calda.
Noi che abbiamo dormito poco, vomitato tanto e praticato la scarpetta anche nei piatti del cous cous.
Noi, che ad ogni nuova proposta di Leonard d’Arabia ci siamo detti “ma ci cazzo ce l’ha fatto fare” e che alla fine ce l’abbiamo fatta.
Ma soprattutto NOI che abbiamo gioito, provato i nostri limiti fisici e soprattutto mentali, che ci siamo messi in gioco fino all’ultimo giorno e che abbiamo rubato tutto il tempo per non perderci niente.
Noi che abbiamo camminato un’ora sotto la pioggia nella zanga di acqua e fango, che siamo stati in trenta nel vagone bestiame a suon di risate e facce bianche, che abbiamo giocato al tagadà sui fuoristrada pazzi nelle sabbie del deserto, che abbiamo camminato 4 ore sui cammelli dondolati, scekerati dal movimento lento del quadrupede bavoso sotto i 45 gradi alle tre del meriggio.
Noi che ci siamo sentiti penitenti del deserto, peccatori destinati ad una vita di eremitaggio mentre esaurivamo le ultime gocce d’acqua calda dalle borracce nascoste sotto le coperte bollenti sulla gobba dei dromedari. Ma niente paura, forse è solo l’emblema dell’inadeguatezza delle nostre confortevoli abitudini di fronte alle zone della Madre Terra ancora non domate dalla nostra rassicurante idea di progresso.
Il nostro viaggio in Marocco è stato un’esperienza sensoriale, in cui abbiamo toccato con mano vera una terra pervasa da esotismo e insieme familiarità, in cui i luoghi che abbiamo vissuto hanno parlato alle nostre convinzioni e permeato le nostre giornate, più delle relazioni tra noi. Incapaci di resistere al fascino che anima una terra a noi sconosciuta, ci siamo dati alla “feroce autenticità” di un mondo vicino eppure lontanissimo, con l’ingenuità di chi conosce solo i propri percorsi.
E così il nostro viaggio in Marocco termina qui. Ma terminato è una parola grossa, perché  un viaggio in Marocco non finisce, va in pausa. Prima o poi si riparte.